quanto si può sopportare in nome dell’amore?

credits: gianni de conno
Una lettura psicoanalitica del film Dogman di Matteo Garrone (livello di spoiler basso)

Marcello è dolce, fragile e apprezzato da tutta la comunità della periferia in cui vive. Conduce una vita fatta di lavoro e incontri programmati con la figlia, Marcello è un padre separato. Perché la scelta dell’autore di una tale configurazione famigliare? Forse per farcelo immaginare non coinvolto in una relazione d’amore adulta. Marcello è come un bambino, ama con la sete di chi vuole essere amato. I cani sono il suo punto di equilibrio, costituiscono quello che il padre della Psicologia del Sé, Heinz Kohut, definirebbe l’oggetto-Sé, ossia un supporto e il nutrimento del proprio Sé che altrimenti fragile. Chiama la figlia e i suoi cani con la stessa parola strascicata “amoreee”, un’esplosione di gioia che suona forzata. Il cane è il miglior amico dell’uomo, la relazione instaurata con i cani rappresenta un rapporto tra due soggetti con caratteristiche simmetriche, o quasi. Sotto il travestimento da cane che Marcello ha indossato per essere accettato c’è vergogna, rabbia e desiderio di vendetta.

Marcello vuole stare bene con tutti senza distinzione. Anche con chi non mostra alcuna empatia nei suoi riguardi. Marcello si lascia fagocitare nella relazione di amicizia con Simoncino senza opporre resistenza. Il bisogno di soldi che lo lega al sodale e fa sì che si renda complice di atti criminali, oppure la paura di una ritorsione fisica da parte dell’amico energumeno, non sono le ragioni profonde di un attaccamento che potrebbe essere definito masochista. La possibilità di ricevere parte del bottino in cambio di una rapina è una soddisfazione simbolica, metonimia di un risarcimento concreto per il Sé deprivato nella relazione patologica. D’altra parte, la paura dell’offensiva fisica è anche l’incarnazione della paura della comunità, che darebbe a Marcello riscontro tangibile di essere estensione di un Sé sociale, una parte del tutto. Dal mio punto di vista, più che il bisogno di denaro o la paura di essere vittima dell’ira di Simoncino, ciò che veramente impedisce al protagonista di prendere le distanze dall’amico vessatore è la sua profonda incapacità di tollerare la vergogna di sentirsi non degno di amore e la conseguente angoscia di frammentazione del Sé.

Nell’articolo “liberare lo spirito dalla sua cella”, lo psicoanalista Bernard Brandchaft ci parla di Patrick, un paziente che aveva raggiunto un ampio successo nella sua professione di architetto, sposato con una moglie amorevole dalla quale aveva avuto dei figli. Tuttavia, nonostante il quadro apparentemente senza nessuna particolare problematica, conduceva una vita intrisa di senso di vuoto, che riusciva a contenere soltanto immergendosi nel lavoro fino allo sfinimento. “Se si allontanava minimamente da questa esistenza ritualizzata veniva invaso da terribili presentimenti. Era costretto a concludere ciò che suo padre aveva sempre sostenuto: che la sua insistenza nello scegliere personalmente la propria vita, e la non accettazione del fatto che il padre la scegliesse per lui, costituiva una indiscutibile dimostrazione della sua stupidità o caparbietà”.

Brandchaft sostiene che il suo paziente avesse organizzato una struttura psicologica, che gli garantisse almeno un vago senso di coesione del Sé, ricorrendo ad un “adattamento patologico”. La realtà psichica dei genitori, con i loro bisogni, si era imposta su di lui disconoscendolo come soggetto autonomo. Pur di mantenere il legame necessario alla sopravvivenza fisica e psicologica, il piccolo Patrick aveva imparato a rinunciare all’espressione di quelle iniziative e bisogni personali che potevano entrare in conflitto con le esigenze e aspettative genitoriali. Da qui deriverebbe la nascita di una struttura di adattamento che obbliga le persone come Patrick a continuare a definire sé stesse rispetto ai bisogni e ai timori degli altri.

La rinuncia alle proprie parti più autentiche si accompagna alla convinzione che l’aspirazione ai bisogni evolutivi personali sia espressione di un difetto ripugnante o di una cattiveria interna per la quale non si è degni d’amore. Viene creato, così, un irraggiungibile Sé Ideale nel quale collocare, attraverso il processo della dissociazione, i contenuti affettivi autentici ma incompatibili; mentre il Sé patologico può continuare a rappresentare un’immagine di sé purificata dai contenuti affettivi “cattivi”, quindi amabile.

In altri termini, l’adattamento patologico come definito da Brandchaft farebbe sì che il Patrick bambino abbia appreso il seguente schema: per essere amato dai miei genitori devo anteporre la loro realtà psichica alla mia, qualora le mie parti più autentiche dovessero emergere in contrapposizione con le attese dei miei genitori le attribuirei ad un me-cattivo e indegno, piuttosto che mettere in discussione la bontà dei miei genitori e il legame di amore che mi unisce a loro. Il me-cattivo quando emerge mi fa sperimentare vergogna perché mi sento mostruoso e l’impossibilità di soddisfare i miei sani bisogni evolutivi mi fa provare rabbia perché mi sento violato.

Heinz Kohut nel testo “Le due analisi del signor Z” propone che le persone imprigionate in questa struttura psichica non solo provano l’acuta angoscia di perdere un legame primario e rimanere soli, ma anche la disperazione per il timore della perdita di Sé, poiché il senso profondo della propria identità si forma nel contesto relazionale originario (se non sono quella persona che i miei genitori hanno sempre amato, chi sono?).

Tornando a Dogman, Marcello va avanti riuscendo a trovare un suo equilibrio adattandosi patologicamente al contesto sociale, traendo nutrimenti che però lo costringono a restare nella sua gabbia. Combatte il senso di vuoto grazie alla fiducia che i clienti gli ripongono affidandogli i loro “oggetti” amati, grazie al rapporto primordiale che ha con la figlia, rappresentato dalle immersioni sottomarine che riconducono ad un ambiente presimbolico e precedente alla nascita del linguaggio, grazie all’identificazione con la violenza di Simoncino con la quale vicariamente sfoga la propria rabbia, grazie alla condotta illegale con la quale soddisfa il suo Sé-cattivo. Ma soprattutto grazie alle rituali partite di calcetto che rappresentano l’epifania della sua disperata lotta interiore per “essere con l’altro”.

Quando un elemento di questo perverso meccanismo viene meno l’equilibrio si rompe. La dolorosa gabbia di Marcello comincia a mostrare una crepa dopo l’altra, fino ad andare completamente in pezzi. Neanche le grigie pozzanghere riescono più a restituirgli la sua immagine, seppur oscurata. Matteo Garrone esprime una sintesi perfetta tra capacità estetica, nella scelta della fotografia e inquadrature, e capacità di sondare nel profondo l’animo umano.

La comunità nella quale il protagonista si sentiva così integrato non si mostra minimamente disposta a comprenderlo e tantomeno perdonarlo. E questo è intollerabile. La rabbia prende il sopravvento e il conseguente acting out grida il suo bisogno di risarcimento immediato. Marcello sperimenta la solitudine e si trova faccia a faccia con le sue angosce, così fa l’unica cosa che ritiene si possa fare per rispettare la sua autentica rabbia e per sentirsi finalmente degno. Il fuoco cancellerà ogni traccia e il processo di depurazione dalle sue parti mostruose, ma autentiche, avrà luogo. All’alba del giorno più livido, dopo aver compiuto il gesto definitivo, le urla degli amici che giocano a calcetto lo richiamano dall’aldilà della sua anima e gli rammentano che sono loro gli déi che vanno onorati. Marcello fa ricorso a tutte le sue inaspettate forze per portare, come farebbe un cane da riporto per il suo padrone, la vittima sacrificale in spalla verso il miraggio della sua completezza.

4 thoughts on “quanto si può sopportare in nome dell’amore?”

  1. Non ho visto il film, ne ho sentito parlare e mi risuona molto, in maniera lata e tangenziale questa storia mi riguarda, conosco benissimo come si fa per farsi del male per farsi amare, quali sacrifici di me stessa ho fatto per i miei genitori da bambina figlia unica e poi per mio marito da donna sola al mondo. Io non ho dovuto soccombere per sempre come Dogman. Sto, da quando ho compiuto 40 anni, risalendo il pozzo e riconquistando a poco a poco e a prezzo altissimo la mia individuazione di essere umano, di donna libera, di essere degno, di persona bellissima e vibrante ‘di per me stessa’.
    Ma mi chiedo questa creatura struggente che alternativa avrebbe potuto percorrere per uscire dalla patologia, nel suo contesto e con i mezzi che la vita gli ha fornito. Resto in attesa di tue suggestioni.
    Ciao e grazie mille per lo spunto di riflessione.
    Barbara G

    1. Barbara buongiorno, grazie mille per la semplicità con la quale hai comunicato in modo nitido il tuo percorso. Altrettanto nitidamente emerge dalle tue parole la sofferenza e lo sforzo che stai compiendo per venire al mondo. L’immagine del pozzo mi fa pensare alla metafora della nascita, il percorso che tutti noi abbiamo fatto per uscire dal ventre materno. A differenza della nascita biologica questa è per te la tua ri-nascita psichica ed emotiva.
      Mi chiedi le alternative che Dogman avrebbe potuto seguire per far ripartire il suo blocco evolutivo. Francamente non mi viene niente in mente che non suoni come un pontificare sconnesso dalla soggettiva difficoltà dell’uomo-Marcello, qualcosa che oscilli tra una saccenteria e una colpevolizzazione. Quello che onestamente penso è che lui abbia fatto l’unica cosa che gli era possibile fare. Le persone fanno quello che possono, a volte provando di farlo al meglio. Per qualcuno c’è qualcosa, ad un certo punto, che fa scattare la motivazione a cambiare, ad esempio quando la sofferenza diventa insopportabile. La struttura del Sé del nostro protagonista probabilmente era così fragile che non ha retto all’improvviso urlo di dolore, e la frammentazione è stata repentina.
      Dalla mia esperienza clinica di situazioni con simili caratteristiche ho potuto riscontrare che, come il blocco si è venuto a creare a seguito di ripetuti deficit relazionali con le figure primarie di attaccamento, è proprio grazie all’instaurarsi di nuove relazioni più empatiche e nutrienti che si attiva il processo di cambiamento. Passaggi importanti sono ascrivibili al recupero delle emozioni insopportabili e dissociate (per esempio quelle connesse alla vergogna e alla rabbia, come scrivevo nel mio commento al film), fino alla possibilità di vivere con sé stessi e con gli altri una nuova identità personale, più coesa e “sufficientemente” autentica.
      Un caro saluto,
      Roberto

  2. Individuarsi, trovare se stessi senza tradire la propria essenza e senza distruggere al tempo stesso ciò che ci circonda. Conosco questa difficoltà e mi fa soffrire ora che ne sento l’urgenza. Rendersene conto è come aprire gli occhi in un risveglio che non si sa dove conduce. Si è a occhi aperti, ma non si sa come muoversi, cosa fare. Muovere anche di pochi millimetri un braccio, le labbra sembra faticosissimo e spossante. La paura di travolgere nel cammino chi ci sta accanto è tanta. E’ un film che mi spaventa dalla sua uscita questo e non so se lo vedrò nemmeno stasera.

    1. Elena le auguro di riuscire a trovare la forza per affrontare questa sua urgenza, come la definisce rendendo benissimo l’idea. Sappia che è possibile.

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