cosa succede quando improvvisiamo?

 

 

 

 

 

 

Per avere successo, non è sufficiente prevedere, dobbiamo anche imparare a improvvisare.

Isaac Asimov

Teatro e psicoanalisi sono due mondi che hanno molto in comune. La letteratura teatrale ha dato vita a numerose metafore psicologiche, offrendo una varietà di letture delle dinamiche umane. Tra tutti sicuramente si può citare il teatro greco che ha messo in scena sentimenti umani primordiali, complessi ed eterni. Superfluo ricordare l’origine del celebre “complesso di Edipo”, personaggio ormai conosciuto più per il riferimento freudiano che per le tragedie greche.

In questa nota propongo una riflessione in ottica psicodinamica su un particolare tipo di teatro, quello di improvvisazione. A partire dall’incanto che ho sperimentato assistendo ad alcune performance di questo genere, mi sono chiesto cosa ci accade quando improvvisiamo.

Nel film “La grande bellezza” il personaggio Jep Gambardella dice che “È così triste essere bravi: si rischia di diventare abili”. Lungi da me il sottovalutare l’importanza dell’essere preparati e competenti in un determinato campo, anzi, soprattutto in quest’epoca storica credo sia una deriva da scongiurare. E poi, spiegava Dario Fo, l’improvvisazione teatrale non è un dono divino, ma piuttosto mestiere che si può affinare con l’allenamento.

Nello spassoso video al seguente link è possibile vedere un esempio di questa tecnica —> VIDEO

In teatro la tecnica dell’improvvisazione è antica. Viene fatta risalire ad Aristofane, poi le importanti testimonianze nella gloriosa tradizione della Commedia dell’Arte, fino ad arrivare ai mostri sacri del teatro di rivista del novecento. Il mio recente interesse verso questa tecnica è nato assistendo ad alcuni spettacoli nei cosiddetti teatri off di Roma. Non nascondo la mia ammirazione per chi riesce in questa delicata arte, tuttavia mi sono chiesto cosa possa spingere una persona a mettersi così a nudo davanti a un pubblico, senza nemmeno la copertina di Linus offerta dal copione.

Soprattutto, di fronte ad improvvisazioni particolarmente ben riuscite, ci si domanda come fanno gli attori ad essere così spontaneamente brillanti. Parte della risposta è nell’affermazione di Dario Fo rispetto all’affinamento della tecnica, ma sento che ci sia anche molto altro. Ho così avvicinato Emanuela Santilli, una giovane improvvisatrice del gruppo Assetto Teatro, per tentare di scoprire di più.

Emanuela, cosa ti ha spinto a dedicarti a questo particolare genere di teatro?

Il teatro di improvvisazione è il climax della libertà umana. Mette in luce l’abilità dell’attore ed insegna a reagire agli input che arrivano dall’esterno, attuando un comportamento innato ed idoneo. E’ un tango appassionato tra l’individuo e l’ambiente esterno, non esiste un canovaccio, la narrazione regge esclusivamente per le relazioni e l’istinto intuitivo dei personaggio. Si rielaborano le emozioni a livello cognitivo e viscerale, e si creano quelle domande o risposte per permettere alla storia di crescere, portando tali informazioni a sostegno di un’opportunità in funzione della specifica situazione.

Perché ci si iscrive ad un corso di improvvisazione?

La domanda me la pose la mia insegnate del primo anno. Insieme arrivammo a dire che, inequivocabilmente aiuta a sentirsi meno timidi, stempera l’ansia, si impara a fare arte e ci si mette comunque sempre alla prova. Sopra ogni cosa non dobbiamo dimenticare che l’improvvisazione è però divertimento.

A cosa pensi quando entri in scena?

Nell’improvvisazione il corpo in scena può essere plasmato a nostro piacimento, ci si muove necessariamente su più livelli. All’inizio dell’azione di scena non conosciamo il reale significato di ciò che improvviseremo. Tutto è nuovo e l’unica cosa che so è di non sapere nulla, ed è proprio questo “vuoto” che trainerà il gruppo. Poi, poco alla volta, tutti iniziamo a prenderci dei rischi calcolati, ci buttiamo e capiamo che c’è qualcosa che si sta muovendo. In poco tempo passiamo dallo stare in un angolo della classe a fare piccole improvvisazioni di pochi secondi. È una fase veloce. Superati queste prime sensazioni c’è bisogno di una attenzione maggiore per unire tutte le cose e per farlo dobbiamo necessariamente rallentare. Nel momento in cui il processo di acquisizione si rallenta, bisogna raccogliere le informazioni e dargli una forma concreta. Tutto quello che abbiamo imparato fino ad ora va applicato… tutto insieme.

Sembra difficile…

Infatti subentra la frustrazione. Perché pensiamo di non riuscirci, vediamo che gli altri vanno avanti mentre noi non sappiamo applicare più strumenti insieme. Quasi “magicamente” alla fine accade qualcosa, come un click nella testa e in questa ultima fase il processo di apprendimento è completo e il cervello manda in background le informazioni per permettere di acquisirne altre. In poche parole quello che abbiamo appreso diventa un automatismo e possiamo pensare ad altro. E qui cominciamo a divertirci!

Il processo descritto da Emanuela è tipico di altre situazioni nelle quali ci proviamo nella creazione di nuovi significati: il processo creativo, appunto. Nella metafora del teatro risulta molto chiaro come le diverse modalità sensoriali giochino un ruolo inestricabile. All’inizio dell’azione prevale il corpo e le sensazioni fisiche ad esso legate, il resto è mistero poiché non si sa dove si andrà a parare. La creazione nasce da un atto di fede verso il mistero. Poi i sensi si acuiscono e ciò che conta è sintonizzarsi con l’ambiente. Superati questi livelli primari ha inizio l’azione consapevole e gli improvvisatori possono finalmente vedere cosa hanno dipinto sulla tela scenica, come dei pittori che hanno lavorato al buio.

C’è una cosa che si capisce bene dal “noi” che Emanuela usa in diversi passaggi. La potenza del lavoro di improvvisazione in scena sta nell’alchimia che le persone riescono a creare. Il mistero iniziale è soprattutto dato dall’impossibilità di prevedere le nostre reazioni a seguito dei comportamenti dell’altro a noi ignoto. Solo quando si fortificano le interconnessioni tra le persone è possibile vedere come il proprio comportamento influenza quello dell’altro. Come dire vedere sé stessi attraverso gli occhi degli altri. Il sentimento di fiducia aumenta e ci si libera nel piacere del divertimento.

La frase, il gesto, l’azione scenica che si improvvisa appare come qualcosa che si è venuto a creare nel campo intersoggettivo, non una creatura figlia di un unico soggetto. La bravura dell’attore risiede nella capacità di sintonizzarsi come un’antenna con l’ambiente circostante e fare quella cosa giusta nel momento appropriato e coi tempi adatti. Ascoltando le interviste di attori che recitano nel teatro di prosa, quello scritto da un drammaturgo, spesso si sente dire che ogni replica è diversa. Questo significa che, pur riproducendo una sceneggiatura dettagliatamente scritta e provata, c’è sempre qualcosa che cambia nell’interpretazione, sia per lo stato fisico e mentale dell’attore stesso (ovviamente) ma anche per le reazioni e gli stimoli che riceve dall’esterno. In una commedia, ad esempio, il ritmo è fortemente condizionato dalle risate del pubblico.

Anche il processo psicoanalitico è innanzitutto un processo creativo creato nell’incontro con l’altro. Freud ne L’interpretazione dei sogni descrive la tecnica della libera associazione nei seguenti termini:

« Gli si dice [al paziente, NdR] dunque che il successo della psicoanalisi dipende dal fatto che egli osservi e comunichi tutto ciò che gli passa per la mente e non sia tentato di sopprimere un’idea perché gli sembra insignificante o non pertinente, un’altra perché gli sembra assurda: che deve comportarsi con tutta imparzialità nei confronti di ciò che gli viene in mente, perché dipenderebbe proprio dalla critica se non riuscisse a trovare la soluzione del sogno, dell’idea ossessiva, e così via, di cui si è in cerca»

Il padre della psicoanalisi chiedeva agli analizzandi di rispettare questa regola aurea affinché potessero essere eluse le difese psichiche che altrimenti non avrebbero permesso ai contenuti inconsci di emergere. Dal canto suo, l’analista, si sarebbe lasciato andare ad un particolare tipo di ascolto, dal nome che rimanda a viaggi interplanetari: l’attenzione fluttuante. Un vagare nello spazio, analitico, per cogliere le tracce della mente dell’altro, come un esploratore notturno che si affida alle proprie conoscenze e intuizioni per capire dove orientare il flebile fascio di luce della torcia che lo guida. Un incedere, quello dell’analista, che non può essere legato a schemi troppo rigidi, ma deve poter fluttuare in modo creativo per cogliere i contenuti che pur esistendo non sono manifesti.

Tuttavia, dal punto di vista metodologico, nel modo come Freud prescriveva la “regola aurea” emerge un approccio tipico del primo periodo della psicoanalisi, distesi sul lettino si riceveva un invito coercitivo: sii spontaneo. Nel tempo ci si è sempre più resi conto che la creatività, ovvero la capacità di generare significato all’interno di un contesto dato, non può essere un diktat ma spesso il punto di arrivo di un processo con tempi variabili.

Emanuela ci parla di un tango appassionato, questa è oggi la psicoanalisi. Come nel teatro di improvvisazione nascono le interconnessioni tra gli attori, così nell’analisi si procede in due nel percorso creativo. La conoscenza di sé passa da momenti di insight individuali e diventa nuovi comportamenti grazie all’esperienza di condivisione con l’altro, ossia l’analista. In “Mestiere e ispirazione” Lichtenberg parla di “indossare le attribuzioni”, in altre parole diventare il personaggio suggerito dal paziente per consentirgli di recitare un dialogo attraverso il quale sviluppare la propria storia narrativa. Da un lato c’è la competenza e la preparazione dell’analista che, consapevolmente, si lascia andare alle fluttuazioni creative, dall’altro lato della stessa scena c’è la competenza dello stare al mondo del paziente, che disegna nuovi possibili sviluppi della propria storia.

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