l’automobile di G – anatomia di un caso clinico

Il seguente scambio clinico è stato redatto nel rispetto della privacy, sono state apportate alcune modifiche che rendono il protagonista irriconoscibile e lasciano inalterato il senso generale delle dinamiche descritte. “G” ha approvato la pubblicazione della seguente trascrizione per fini di divulgazione.

G arriva in seduta puntuale come un orologio svizzero. Mi saluta e noto immediatamente l’espressione accigliata. Mi dice che è stata una giornata storta, per cui è nervoso. Quando si siede resta in silenzio per un tempo, poi sospira. “Ho distrutto la macchina”, mi dice. “Sono uno stupido, era una manovra che faccio da anni: sempre uguale. Ripeto sempre gli stessi gesti automatici per entrare nel garage. Nel tempo ho imparato a essere sempre più abile, più rapido. Oggi invece ho fatto una cazzata da principiante”. Mi pronuncia queste parole e non si dà pace. Gli chiedo maggiori informazioni sull’accaduto e capisco che si tratta di un’ammaccatura oggettivamente ridotta, la cui riparazione avrebbe comportato una spesa affrontabile per le sue possibilità. Gli chiedo cosa avesse provato sul momento. G mi racconta di aver un po’ lottato usando la massima cautela per disincastrare il paraurti dall’ingresso del box, dopodiché è sceso dalla macchina per controllare l’entità dell’incidente. “Quando ho visto la lamiera deformata ho sentito la terra aprirsi sotto i miei piedi, volevo sparire! Ho sentito le lacrime farsi strada su per gli occhi ma non sono uscite”.

Nel corso della seduta abbiamo esplorato le emozioni connesse a quell’episodio. Il desiderio di sparire mi faceva ipotizzare che si fosse vergognato. Di cosa? G mi risponde che non avrebbe voluto scomparire per vergogna ma perché sentiva di meritarselo. “Mi faceva rabbia ammetterlo, ma in fondo sentivo che era giusto così, è difficile da spiegare ma le sensazioni erano molte e confuse”, prova a spiegare. Con rabbia dichiara che quanto appena successo gli sembrava una pena equa per la sua fragilità.

Decido di allargare il focus, di provare a distogliere lo sguardo da qualcosa ancora troppo penoso per G: “Come è andato il resto della giornata?”. “Niente di speciale”, mi risponde, “ho lavorato tanto, le solite rotture col capo, niente di nuovo”. Restiamo in silenzio, vedo che lo sguardo si fa più sfuggente. G rompe il silenzio “Ah, stamattina sono stato a fare una radiografia. Per il controllo che mi è stato consigliato di fare ogni 5 anni per la mia scoliosi”. Mi aveva già riferito in altre occasioni del suo passato di paziente scoliotico, so che quando aveva dagli 8 ai 13 anni aveva portato il busto ortopedico col collare giorno e notte. Sapevo che era stata un’esperienza traumatica per lui, per la sua vita sociale in anni cruciali per lo sviluppo e per la formazione della sua identità personale. Gli rivolgo il mio interesse domandandogli come fosse andata la visita. “Mah…ci sono cose che sembrano superate e invece stanno sempre lì, da qualche parte dentro. Ho provato, come sempre in questi casi, l’umiliazione di sentirmi diverso e sbagliato. Fatto male, deforme, imperfetto. E gli occhi e i commenti dei medici che ti dicono come posizionarti sono come lame”. Mentre parlava, G aveva appena rotto il muro di protezione tra sé e il mondo esterno. “Chiudevano la porta che separa la sala dove c’ero io da quella isolata dalle radiazioni e si lanciavano battute tra di loro. Sentivo che uno diceva ad un’altra che stavo così messo male che non riusciva a farmi stare in una posizione decente per fare la radiografia. Ho sentito come se mi sputassero addosso. Allora ho risposto con voce forte e ferma ‘spiegatemi meglio come mi devo mettere se così non va bene’. Il sotto testo era: stronzi! Dalla parete col vetro ho visto una infermiera che mi fissava, ho tenuto lo sguardo fino a quando lei lo distogliesse”. G prende fiato, poi chiude il discorso con amarezza: “Dottore, non sono più quel ragazzino che subiva le angherie dei giudizi, che aspettava mortificato di sapere se finalmente fosse guarito e potesse disfarsi del busto!”.

Lo sento pieno di rabbia, la ferita non si è mai rimarginata. Faccio una serie di associazioni mentali e penso alla vergogna di G bambino e al desiderio di sprofondare che aveva sperimentato oggi dopo l’incidente con l’auto. Penso all’auto deformata, penso alla sua deformazione. Stiamo lì per un po’ senza parlarci, lo invito a mettersi comodo sulla poltrona e rilassarsi. Gli esprimo la mia vicinanza e mi scaglio contro la mancanza di empatia di alcuni medici. Gli domando, a questo punto, a cosa stesse pensando tornando a casa, mentre si accingeva a parcheggiare. “Pensavo proprio a questo di cui le sto parlando, pensavo a questa mia guerra infinita contro…non so nemmeno cosa”. Intuisco che non abbia potuto riconoscersi il sentimento di vergogna perché, per sentirsi più forte, negli anni l’aveva dissociato e sostituito con la rabbia. “In fondo me la merito l’auto rotta, non sono un tipo da macchina figa”.

A partire da questa seduta c’è stata una svolta positiva nella terapia. Abbiamo capito come sia capace di gesti autolesionistici e punitivi verso le sue istanze di crescita e realizzazione (la macchina figa, ad esempio), perché in fondo sente di non meritarsi alcuni successi. Abbiamo ricondotto a tendenze autosabotative alcuni episodi che precedentemente erano stati da lui classificati come piccole distrazioni o sfortune, come quando aveva dimenticato di inviare un lavoro nei tempi previsti andando incontro ad un giudizio negativo del suo capo.
Il processo di cambiamento è entrato in una nuova fase, anche grazie ad una nuova intimità che siamo riusciti ad instaurare. Sono molto fiero dei suoi progressi.

4 thoughts on “l’automobile di G – anatomia di un caso clinico”

  1. Sento questo “G” molto simile a me. E anch’io sono una “G” 😊. Incredibile come tutto dipenda da noi, come quello che sentiamo di non meritare non ci arrivi per davvero. Almeno fino a che non capiremo che lo meritiamo, forse anche più degli altri…

  2. È incredibile come i traumi piccoli o grandi che siano condizionino durante tutto il corso della nostra vita. Riportarli alla luce è doveroso e irrinunciabile per un onesto lavoro su se stessi…lo sto facendo io,per la prima volta a 59 anni in un percorso di psicoterapia…

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