l’impatto della tecnologia sulla psiche

Lucio Fontana, Ambiente spaziale con neon

seconda parte

Nella seconda metà del 900 l’uomo ha gestito la paura di perdere il controllo convincendosi  che la tecnica fosse solo un mezzo per realizzare i propri fini. Grazie all’aereo posso accorciare le distanze, grazie alla televisione posso sapere cosa accade a migliaia di chilometri di distanza stando seduto sul divano di casa mia, grazie allo smartphone sono sempre connesso e in grado di comunicare con i miei colleghi per molte ore al giorno e nel fine settimana. Il pensiero dell’uomo è stato: io mi servo della tecnica per vivere meglio.

Secondo Umberto Galimberti questa convinzione è illusoria: “Siamo soliti considerare la tecnica come uno strumento a disposizione dell’uomo, quando invece la tecnica oggi è diventata il vero soggetto della storia, rispetto al quale l’uomo è ridotto a funzionario dei suoi apparati. Al loro interno, infatti, egli deve compiere quelle azioni descritte e prescritte che compongono il suo “mansionario”, mentre la sua persona è messa tra parentesi a favore della sua funzionalità”. La corsa all’innovazione tecnologica, a partire dalle ultime decadi del 900, è stata un po’ come una corsa agli armamenti. Società, Paesi, aziende, hanno sbandierato lo sviluppo tecnologico come esibizione muscolare per conquistare mercati e credibilità a livello internazionale. Crescita tecnologica = vantaggio economico. Possesso dell’ultimo modello di smartphone = status. Quindi non solo: io mi servo della tecnica per vivere meglio, ma io mi servo della tecnica per avere di più o per essere qualcuno.

Siamo arrivati ad un punto nuovo nella Storia dove la domanda non è più: “Che cosa possiamo fare noi con la tecnica”, ma “Che cosa la tecnica può fare di noi”. La tecnica cambia il nostro modo di sentire e il nostro modo di pensare.

Come cambia il nostro sentire

Ancora una volta seguiamo il ragionamento di Anders. Egli ha ipotizzato tre conseguenze della tecnologia sul nostro sentire, definite dislivelli:

  1. non sappiamo quali saranno le conseguenze che un domani ci saranno nell’utilizzare la tecnologia che produciamo oggi.
  2. C’è una grande differenza fra il massimo che si può produrre ed il massimo che è possibile utilizzare; produciamo di più di quello che umanamente potremmo utilizzare.
  3. L’ultimo dislivello «consiste  tra il massimo di ciò che possiamo produrre e il massimo (vergognosamente piccolo) di ciò che possiamo aver bisogno».

Questi costanti divari mettono allo specchio l’uomo, che è portato a misurarsi con sempre maggiori aspettative sulle sue performance. Ma l’essere umano essendo strutturalmente meno “performante”, per usare un termine volutamente fastidioso, delle macchine viene condannato ad esperire un senso di inadeguatezza e vergogna.  

Nel mondo dominato dalla tecnica i sentimenti non sono riusciti a stare al passo con il rapido e continuo progresso del mondo delle macchine. Questa accelerazione inaudita ha impedito il normale processo di adeguazione, cosicché le emozioni sono in costante ritardo Anders definisce questo processo «analfabetismo emotivo». “Di fronte allo smisurato, la nostra sensibilità si inceppa. Il ‘troppo grande’ ci lascia indifferenti”, non freddi, perché la freddezza sarebbe già un sentimento. E quando leggiamo in internet di qualche località remota in cui si ripetono situazioni tragiche, il nostro sentimento si trova di fronte non a una tragedia, ma a una statistica, e piomba in una sorta di analfabetismo emotivo.

Il sentire umano, legato ancora a schemi pre-tecnologici, non è all’altezza del mondo creato dalla tecnica.

Come cambia il nostro pensiero

Nell’era della tecnica disponiamo prevalentemente di quel tipo di pensiero che Heidegger chiama “calcolante”, in grado solo di far di conto, di rispondere al richiamo dell’utile e del vantaggioso, di operare unicamente in quel breve tratto che connette i mezzi ai fini in modo da ottimizzarne l’impiego al minor costo possibile. Ci sono ancora dei pensieri liberi, ma spesso non incidono realmente su ciò che accade nel mondo, dove tutto ruota intorno all’utilità. L’utilizzo della tecnica che risponde a questa esigenza  impoverisce il pensiero umano rendendolo incapace di vedere al di là, di riflettere, ossia di comprendere il senso profondo di quello che facciamo e produciamo.

L’unica possibilità per l’uomo, sostiene Heidegger, è quella di contrapporre al pensiero calcolante, il pensiero meditante. Quest’ultimo non va però inteso come un pensiero per pochi, troppo alto per il pensiero ‘ordinario’  ma anzi è il pensare veramente, nel senso dell’aletheia, ossia una tensione alla comprensione della realtà. Ma il meditare non è immediato né spontaneo, piuttosto è quanto più difficile siamo abituati a fare: richiede uno sforzo significativo.

Le macchine hanno spinto l’uomo a ragionare rapidamente e in ottica binaria, riducendo la complessità e il valore del dubbio. Hanna Arendt, come già aveva suggerito Socrate, sottolinea come tutti gli uomini davanti al mondo ne sono squassati dalla sua meraviglia. Pochi se ne fanno toccare, si fanno domande forti sulla vita. Gli altri, che ne sono toccati, se ne difendono facendosi opinioni, dandosi rapidamente delle risposte. Bisognerebbe coltivare la capacità di restare nella meraviglia senza soccombere all’urgenza di risolverla.

Per definizione l’attività umana che più di tutte ci ha abituati a questo è l’arte.

Nella nostra epoca, nell’era della tecnica, c’è bisogno di recuperare quell’autenticità di sentire e pensare di cui sicuramente la poesia, ad esempio, è una delle massime manifestazioni, in quanto espressione sensibile e meditata del mondo.

La poesia –
ma cos’è mai la poesia?
Più d’una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
Come alla salvezza di un corrimano.

tratto da “A qualcuno piace la poesia” di Wislawa Szymborska

1 thought on “l’impatto della tecnologia sulla psiche”

  1. L impatto della televisione sulla nostra psiche e cosi profondo che puo influenzare i nostri sogni. Nel 2008, uno studio condotto presso l Universita di Dundee in Scozia ha scoperto che gli adulti di eta superiore ai 55 anni che erano cresciuti in una famiglia con un televisore in bianco e nero erano piu propensi a sognare in bianco e nero. Partecipanti piu giovani, che sono cresciuti nell era del Technicolor, quasi sempre sognano a colori.

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